Trentenni: Convivere o avere dei coinquilini a 30 anni

Cari 30enni, sono una di voi.
Ho 31 anni e nel tempo libero mi diletto a scrivere su un blog, il passaggio agli enta dal punto di vista degli outsider come me, quelli che hanno passato una vita a fare gli adulti e che, quando era il momento di crescere, hanno optato per la via dell’adolescenza.
Un’adolescenza un po’ goffa, per carità, che gli enta si fanno sentire, ma proprio per questo unica nel suo genere: un’incoscienza consapevole, delle più squisite. Se è questo il genere di sapori forti che amate, allora siete nel posto giusto.

Photo by Fa Barboza on Unsplash

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Bene, ora vi racconto di come sono tornata a convivere con coinquilini alle soglie dei trent’anni, e di quanto questo cambio si sia reso provvidenziale in tempi di covid.
Non so voi, ma quello della convivenza tra trentenni è un fenomeno che ho imparato a conoscere circa un anno fa, tanto diffuso quanto sottaciuto.
Dirò una banalità, ma convivere a trent’anni non è com’è stato condividere casa a venti.
Quando hai vent’anni la tua vita è un pendolo che oscilla tra come mamma ti faceva trovare casa e sesso, droga e rock ‘n’ roll.

Photo by Mike Beaumont on Unsplash

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Quindi, da una parte hai le giornate in cui quei piatti nel lavello sono la cosa più insopportabile del mondo, e dall’altra hai quelle in cui vomiteresti sul pavimento e vorresti che nessuno te ne facesse una colpa.
La verità è che quando hai vent’anni sei in guerra contro tutti: non vedi l’ora di diventare grande, di smettere di studiare, di iniziare a lavorare, di avere il tuo stipendio e coronare il sogno di vivere da solo. Girare nudo per casa, mettere la musica a tutto volume, lasciare le tazze sporche nel lavello dopo colazione, sono tutte cose che ti sembrano un sogno.
Perché a vent’anni no: tu odi il tuo coinquilino e lui odia te, e avete tutte le energie salve da dedicare a questa battaglia senza vincitori.
Poi inizi a lavorare. Ti butti a capofitto nel mondo capitalistico, di cui all’inizio sposi la causa: parli della “tua” azienda, usi il “noi” per riferirti a te e al tuo team di lavoro.

Photo by Firmbee.com on Unsplash

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Magari hai anche una storia, sei uno di quelli del tutto per tutto, come lo ero anche io.
Convivi. Torni dal lavoro e trovi la cena pronta e il film già scelto.
Dopo, basta davvero poco: ti accorgi che il mondo del lavoro è una giungla, che la tua relazione fa acqua da tutte le parti, che vivi in una grande città e che, anche se piangi sul ciglio della metro, nessuno se ne accorge. Sei solo.
Quando ho scelto di tornare a vivere con dei coinquilini avevo 29 anni e mi trovavo a cambiare casa dopo un periodo in cui, in ordine:

● avevo convissuto con il mio ex compagno per 3 anni;

Photo by Soroush Karimi on Unsplash

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● per 1 anno, dopo la convivenza, avevo continuato a vivere nella stessa casa (“è troppo comoda!” mi dicevo) struggendomi ogni volta che per sbaglio aprivo uno dei cassetti rimasti vuoti dopo la separazione;
● per 6 mesi di quei 12, avevo diviso la stessa casa con il mio migliore amico;
● per 3 mesi di quei 6, il mio migliore amico mi aveva piazzato in casa un supplente di discutibile simpatia e più che discutibile pulizia, che era ormai diventato il mio compagno di crisi al rientro dal lavoro.
Pensate come stavo messa.
Detto questo, a trent’anni a me è successo quello che su Vice, in un articolo, una tale di nome Giulia ha spiegato con parole che non ne avrei potute trovare di migliori.

L’articolo intervistava alcuni esemplari della specie, polemizzando su un mercato immobiliare che mette gli affitti (cito testualmente) “a palla di cannone”, quando i 30enni sono ancora troppo precari per permettersi di vivere da soli. Ecco, Giulia, in barba alla schiera di coetanei esausti del coinquilianaggio, ha affermato che “vivere con dei coinquilini dopo i 30 anni è più una scelta politica che economica”. E continua: se le metropoli alimentano solitudine e individualismo, formare una piccola comunità è un atto di resistenza.
Giulia, io vorrei stringerti la mano perché la penso proprio come te.
Quando mi sono messa alla ricerca di una stanza in un appartamento condiviso ero più disperata che convinta di creare una piccola comunità contro l’individualismo, ed ho iniziato la ricerca studiando il sottobosco di trentenni che viveva in condivisione a Roma più pensando che si sentissero come chi perde ai calci di rigore che il numero 10 della squadra. Eppure qualcosa dentro di me mi diceva che stavo facendo la scelta giusta per la mia vita in quel momento. Mi sarebbe bastato avere occhio: per la casa, che doveva essere comoda, e per i coinquilini, rigorosamente coetanei, che avrei riconosciuto a pelle.

E così è stato quando, dopo una lunga ed estenuante ricerca, ho trovato la casa in cui vivo adesso: ho rotto così tanto le palle a coinquilina 1 che per disperazione mi ha dovuta prendere con lei.
Nel tempo, io e coinquilina 1 e coinquilina 2 siamo diventate quel piccolo fortino contro il mondo là fuori di cui parlava la giornalista, fatto di giorni in cui non ci incontriamo neanche per sbaglio (in condizioni di normalità), e di serate in cui – dopo le 23, perché loro fanno un botto di cose, regà – partono birra, sigaretta e risate condite al sapore di lacrime, quelle che una delle tre sicuramente versava fino a pochi minuti prima (per quello facciamo a turno, per le pulizie no).
Ed è qui che, ragazzi, vi renderete conto di quanto i piatti sporchi nel lavello e i capelli nella doccia abbiano un’importanza davvero relativa, quando a combattere le intemperie della vita si può essere un po’ meno soli.

da Avere30anni.it
di Maria Flavia Vecchio
Ig: flos_mag

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